«Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?» (Gv 14, 22).
E’ una domanda che mi faccio spesso anch’io. Il mio mondo, la cultura postmoderna, le persone che concretamente incontro nelle mie giornate, fanno tanta fatica a credere: non manca la curiosità per ciò che è singolare o paranormale, ma sembra difficile un credere che consista nell’affidare totalmente se stessi a Colui che è la nostra sorgente e l’estuario della nostra vita. La fede appare “intrigante” in senso – paradossalmente – etimologico a chi, oggi, si sente ricattato e in qualche modo “irretito” da paure esistenziali irrisolte o minacciato da asserzioni dogmatiche avulse dalla realtà quotidiana. Così la moderna icona della chiamata di Pietro e Andrea, nel riprendere un celebre mosaico di Monreale, presenta l’inattesa innovazione delle grandi dimensioni della rete, che sembra avviluppare i due pescatori nel momento in cui sono chiamati – appunto – a fidarsi di Gesù (Mt 1, 15-20).
Al funzionario di Cafarnao che aveva nel cuore solo l’angoscia per il figlio malato, Egli ha detto: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (Gv 4, 48); ma è riuscito a trasformare il prodigio in un segno che fosse realmente tale, cioè segnale che indicasse la direzione verso di Lui: il funzionario riceve solo una promessa («tuo figlio vive»), una risposta in chiaroscuro, che muove e sollecita la fede; ma lui «credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino» (Gv 4, 50).
Diversa è la dinamica dell’incontro di Gesù con il lebbroso, almeno come la narra Mc 1, 40-45: «Se vuoi, puoi guarirmi»; e Gesù: “Certo che voglio!» (… ma tu cosa vuoi? Vuoi che Io sia il tuo Salvatore? vuoi conoscere Me, affidare la tua vita a me, o vuoi solo star bene a modo tuo?). La guarigione accade comunque, ma è un “fatto”, un evento (precario, perché l’uomo è mortale): non è l’incontro di due persone, non è una scoperta dell’Altro.
Gesù ammonisce “severamente” il lebbroso guarito, mandandolo dai sacerdoti (che avevano il compito appunto di certificare le guarigioni). E l’evangelista aggiunge, acutamente: «Ma quell’uomo si allontanò» (Gesù non gli aveva detto di allontanarsi da Lui, di prendere le distanze dalla Sua persona) «e si mise a divulgare il fatto»: nulla più del “fatto”, appunto. Non aveva altro da divulgare, e per questo Gesù gli aveva ordinato di non dire niente a nessuno: nel suo racconto la guarigione non sarebbe stata altro che un prodigio, avrebbe attirato grandi folle desiderose di procurarsi un intervento del taumaturgo (Lc 5, 15 è più ottimista: «folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie»). Gesù invece voleva che i “segni” fossero autentici segnali che conducessero all’amicizia con Lui, non segni prodigiosi che attirassero folle desiderose di commuoversi al vedere “qualche segno fatto da Lui”, come il re Erode, al quale Gesù non rispose nulla (Lc 23, 8-9): quando non c’è incontro fra persone, non c’è possibilià di dialogo.
«Signore, come è accaduto…?». Nell’ultima cena Gesù parla, dolorosamente, di chi non lo conosceva perché non riusciva a vederlo, si fermava alle cose che succedevano, ai “fatti”. Ma ai suoi amici, Gesù comunica la sua personale sollecitudine per tanti amici “mancati”. «Se uno mi ama…» (Gv 14, 23), allora si innesca un’amicizia dinamica con Gesù, e questa amicizia ci coinvolge nella familiarità del Figlio con il Padre e si allarga, nel tempo della Chiesa, con il coinvolgimento dello Spirito Santo (Gv 14, 25).
Ma uno degli amici di Gesù, Giuda Taddeo, si era accorto di una stranezza: certe volte Gesù sembrava fare in modo da non farsi capire! «Signore, come è accaduto…?». Certe cose il Maestro le diceva in parabole, le infiocchettava in un raccontino che intratteneva gli ascoltatori ma non li “catturava” come i miracoli, che almeno muovevano le folle a cercarlo; e quelle parabole poi Lui le spiegava solo agli amici, a quelli che già gli volevano bene e perciò cercavano di mettere in pratica ogni sua parola, sentendoci vibrare la voce del Padre (Gv 14, 23).
In un suo piccolo libro su Gesù Cristo nostro mediatore e Signore (1966) Yves Congar, raccogliendo intuizioni di Pascal e Kierkegaard, coglie la delicatezza con cui Dio vuole rivelarsi a chi – anche e soprattutto nel mondo moderno – fa fatica a credere o non è interessato a mettersi in gioco, ad affrontare un cammino di decisioni. Nella “struttura dialogica della rivelazione” si coglie “il chiaroscuro del segno o della parabola”, in cui “Dio presenta il suo messaggio in modo che si possa avere qualche ragione per non capirlo e rifiutarlo, ma anche una vera possibilità di riconoscerlo e accettarlo” (tr. it., ed. Marietti, 1966, p. 111).
“Chi ha orecchi in grado di ascoltare, ascolti!” (Lc 8, 8): a chiunque di noi può accadere, nei diversi momenti della vita, che la nostra capacità di ascolto venga meno, nella superficialità dell’abitudine e in tutto ciò che rischia di fuorviare la nostra attenzione. La parabola può aprire la strada alla decisione della fede, ma se non ci trova attenti sarà comunque un segnale di amore che attende l’occasione propizia per ripresentarsi in altro modo, con nuove occasioni di incontro.
Dio non vuole comunque essere intempestivo, per non rischiare di provocare un rifiuto; così, preoccupandosi di chi non recepiva i suoi insegnamenti e fraintendeva i suoi “segni” (Gv 12, 37), Gesù ricontestualizza (Mc 4, 11-12; Lc 8, 10; Gv 12, 40) le parole di Is 6, 9-10, di cui Mt 13, 13-15 mostra il compimento mediante una reinterpretazione razionalizzata del testo profetico: quando non è prevedibile che i suoi ascoltatori possano decidersi per Dio, rivolgendo a Lui la loro attenzione, è meglio che, per il momento, “guardino e non vedano, ascoltino e non comprendano”, se ancora non possono convertirsi e ricevere il perdono (Mt 13, 13). Ma quando siamo capaci di ascoltare fino in fondo, cioè riusciamo a “fermarci, guardare, ritornare” (come ha suggerito papa Francesco nella Messa del mercoledì delle Ceneri), può esserci dato “il mistero del regno di Dio” (Mt 13, 11), ed è la stupefacente esperienza dell’operare di Dio efficace nella storia, perché anche dopo l’Ascensione Gesù è con noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, o meglio “fino al compimento dell’αἰών” (Mt 28, 20), cioè “fino alla piena realizzazione dell’eternità”.
Ma è un percorso in cui Dio rispetta i tempi dell’uomo, pur non cessando di sollecitarne la libera decisione: perché si tratta di un amore che chiede amore.
E’ una domanda che mi faccio spesso anch’io. Il mio mondo, la cultura postmoderna, le persone che concretamente incontro nelle mie giornate, fanno tanta fatica a credere: non manca la curiosità per ciò che è singolare o paranormale, ma sembra difficile un credere che consista nell’affidare totalmente se stessi a Colui che è la nostra sorgente e l’estuario della nostra vita. La fede appare “intrigante” in senso – paradossalmente – etimologico a chi, oggi, si sente ricattato e in qualche modo “irretito” da paure esistenziali irrisolte o minacciato da asserzioni dogmatiche avulse dalla realtà quotidiana. Così la moderna icona della chiamata di Pietro e Andrea, nel riprendere un celebre mosaico di Monreale, presenta l’inattesa innovazione delle grandi dimensioni della rete, che sembra avviluppare i due pescatori nel momento in cui sono chiamati – appunto – a fidarsi di Gesù (Mt 1, 15-20).
Al funzionario di Cafarnao che aveva nel cuore solo l’angoscia per il figlio malato, Egli ha detto: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (Gv 4, 48); ma è riuscito a trasformare il prodigio in un segno che fosse realmente tale, cioè segnale che indicasse la direzione verso di Lui: il funzionario riceve solo una promessa («tuo figlio vive»), una risposta in chiaroscuro, che muove e sollecita la fede; ma lui «credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino» (Gv 4, 50).
Diversa è la dinamica dell’incontro di Gesù con il lebbroso, almeno come la narra Mc 1, 40-45: «Se vuoi, puoi guarirmi»; e Gesù: “Certo che voglio!» (… ma tu cosa vuoi? Vuoi che Io sia il tuo Salvatore? vuoi conoscere Me, affidare la tua vita a me, o vuoi solo star bene a modo tuo?). La guarigione accade comunque, ma è un “fatto”, un evento (precario, perché l’uomo è mortale): non è l’incontro di due persone, non è una scoperta dell’Altro.
Gesù ammonisce “severamente” il lebbroso guarito, mandandolo dai sacerdoti (che avevano il compito appunto di certificare le guarigioni). E l’evangelista aggiunge, acutamente: «Ma quell’uomo si allontanò» (Gesù non gli aveva detto di allontanarsi da Lui, di prendere le distanze dalla Sua persona) «e si mise a divulgare il fatto»: nulla più del “fatto”, appunto. Non aveva altro da divulgare, e per questo Gesù gli aveva ordinato di non dire niente a nessuno: nel suo racconto la guarigione non sarebbe stata altro che un prodigio, avrebbe attirato grandi folle desiderose di procurarsi un intervento del taumaturgo (Lc 5, 15 è più ottimista: «folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie»). Gesù invece voleva che i “segni” fossero autentici segnali che conducessero all’amicizia con Lui, non segni prodigiosi che attirassero folle desiderose di commuoversi al vedere “qualche segno fatto da Lui”, come il re Erode, al quale Gesù non rispose nulla (Lc 23, 8-9): quando non c’è incontro fra persone, non c’è possibilià di dialogo.
«Signore, come è accaduto…?». Nell’ultima cena Gesù parla, dolorosamente, di chi non lo conosceva perché non riusciva a vederlo, si fermava alle cose che succedevano, ai “fatti”. Ma ai suoi amici, Gesù comunica la sua personale sollecitudine per tanti amici “mancati”. «Se uno mi ama…» (Gv 14, 23), allora si innesca un’amicizia dinamica con Gesù, e questa amicizia ci coinvolge nella familiarità del Figlio con il Padre e si allarga, nel tempo della Chiesa, con il coinvolgimento dello Spirito Santo (Gv 14, 25).
Ma uno degli amici di Gesù, Giuda Taddeo, si era accorto di una stranezza: certe volte Gesù sembrava fare in modo da non farsi capire! «Signore, come è accaduto…?». Certe cose il Maestro le diceva in parabole, le infiocchettava in un raccontino che intratteneva gli ascoltatori ma non li “catturava” come i miracoli, che almeno muovevano le folle a cercarlo; e quelle parabole poi Lui le spiegava solo agli amici, a quelli che già gli volevano bene e perciò cercavano di mettere in pratica ogni sua parola, sentendoci vibrare la voce del Padre (Gv 14, 23).
In un suo piccolo libro su Gesù Cristo nostro mediatore e Signore (1966) Yves Congar, raccogliendo intuizioni di Pascal e Kierkegaard, coglie la delicatezza con cui Dio vuole rivelarsi a chi – anche e soprattutto nel mondo moderno – fa fatica a credere o non è interessato a mettersi in gioco, ad affrontare un cammino di decisioni. Nella “struttura dialogica della rivelazione” si coglie “il chiaroscuro del segno o della parabola”, in cui “Dio presenta il suo messaggio in modo che si possa avere qualche ragione per non capirlo e rifiutarlo, ma anche una vera possibilità di riconoscerlo e accettarlo” (tr. it., ed. Marietti, 1966, p. 111).
“Chi ha orecchi in grado di ascoltare, ascolti!” (Lc 8, 8): a chiunque di noi può accadere, nei diversi momenti della vita, che la nostra capacità di ascolto venga meno, nella superficialità dell’abitudine e in tutto ciò che rischia di fuorviare la nostra attenzione. La parabola può aprire la strada alla decisione della fede, ma se non ci trova attenti sarà comunque un segnale di amore che attende l’occasione propizia per ripresentarsi in altro modo, con nuove occasioni di incontro.
Dio non vuole comunque essere intempestivo, per non rischiare di provocare un rifiuto; così, preoccupandosi di chi non recepiva i suoi insegnamenti e fraintendeva i suoi “segni” (Gv 12, 37), Gesù ricontestualizza (Mc 4, 11-12; Lc 8, 10; Gv 12, 40) le parole di Is 6, 9-10, di cui Mt 13, 13-15 mostra il compimento mediante una reinterpretazione razionalizzata del testo profetico: quando non è prevedibile che i suoi ascoltatori possano decidersi per Dio, rivolgendo a Lui la loro attenzione, è meglio che, per il momento, “guardino e non vedano, ascoltino e non comprendano”, se ancora non possono convertirsi e ricevere il perdono (Mt 13, 13). Ma quando siamo capaci di ascoltare fino in fondo, cioè riusciamo a “fermarci, guardare, ritornare” (come ha suggerito papa Francesco nella Messa del mercoledì delle Ceneri), può esserci dato “il mistero del regno di Dio” (Mt 13, 11), ed è la stupefacente esperienza dell’operare di Dio efficace nella storia, perché anche dopo l’Ascensione Gesù è con noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, o meglio “fino al compimento dell’αἰών” (Mt 28, 20), cioè “fino alla piena realizzazione dell’eternità”.
Ma è un percorso in cui Dio rispetta i tempi dell’uomo, pur non cessando di sollecitarne la libera decisione: perché si tratta di un amore che chiede amore.