In mezzo ai tanti fuochi fatui del Natale commerciale, guardiamo oggi il Bambino di Betlemme, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15) apparso visibilmente più di duemila anni fa. E ci ricordiamo che ognuno di noi, ogni essere umano, dice la Bibbia, è creato ad immagine di Dio, per diventare a lui somigliante (Gen 1,26): prima che in tante dissertazioni filosofiche e dichiarazioni internazionali, la dignità e libertà dell’uomo è tutta espressa in queste poche parole della Genesi.
Colui di cui l’uomo pio non voleva farsi alcuna immagine, per non ridurre Dio a un idolo manipolabile, si è fatto immagine dell’uomo, ne ha condiviso la corporeità e il linguaggio. Così a sua volta Dio, fedele al suo disegno originario, ci ha “progettati conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli fosse il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29): e questo si realizza con la Pasqua del Signore, quando Gesù, dopo aver chiamato “amici” i suoi discepoli (Gv 15,15), dopo aver condiviso tutta intera la condizione umana, fino alla morte, può ormai chiamarli “fratelli” (Gv 20,17).
La fraternità umana nasce dunque da questa primogenitura, che ci fa scoprire la paternità divina in modo nuovo e reale: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo!” (1Gv 3,1). Se il greco Diogene cercava l’uomo, il cristiano ha trovato il fratello. Ma quando diventa orfano di Dio, l’uomo moderno sembra aver smarrito la nozione stessa della fraternità umana.
Essa è ancora menzionata nel primo articolo della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” (1948): “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (proemio). Dunque quella solenne Dichiarazione, quasi a voler esorcizzare le spaventose catastrofi della recente guerra mondiale, come primo passo nel cammino verso la realizzazione di quell’ “ideale comune” poneva un rassicurante richiamo alle conquiste del Secolo dei Lumi: libertà, uguaglianza, fraternità. Quasi che “la ragione e la coscienza” possano davvero indurre gli esseri umani ad agire in spirito di fraternità reciproca.
Il 70° anniversario di questa Dichiarazione è stato ricordato, il 10 dicembre scorso, come un punto di riferimento tuttora irrinunciabile, anche se sempre esposto a drammatiche violazioni e addirittura a negazione delle stesse enunciazioni di principio. D’altra parte il testo prevedeva fin dall’inizio un cammino irto di contraddizioni e incoerenze, raccomandando “di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione”.
Due giorni dopo questo solenne anniversario, il 12 dicembre scorso, nella conferenza intergovernativa di Marrakech è stato approvato il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration: l’Italia si è astenuta, e lo ha fatto anche in sede di approvazione finale all’Assemblea generale dell’ONU il 19 dicembre, due giorni dopo l’approvazione del Global Compact on Refugees, dove invece l’Italia aveva dato voto favorevole. Questa distinzione tra le due categorie di persone in cerca di felicità (una ricerca che è diritto inalienabile di tutti gli uomini, secondo il preambolo della Costituzione americana) non corrisponde evidentemente a un’ottica cristiana.
Papa Francesco, all’Angelus del 16 dicembre, commentando l’esito della conferenza di Marrakech aveva espresso l’auspicio che la comunità internazionale “grazie anche a questo strumento, possa operare con responsabilità, solidarietà e compassione nei confronti di chi, per motivi diversi, ha lasciato il proprio Paese”, senza distinzione cioè fra migranti e rifugiati. Ma quale può essere la molla della “responsabilità, solidarietà e compassione” raccomandata dal Papa?
Una volta smarrita la nozione cristiana di una fraternità che unisce tutti gli esseri umani, la solidarietà e la compassione sono esposte alla precarietà: non solo quando i sentimenti sono soffocati da interessi ed egoismi individuali o collettivi, ma anche quando l’altro non è tale da suscitare tenerezza o simpatia, e farsene carico diventa un fardello pesante. “Portate i pesi gli uni degli altri” raccomandava, realisticamente, san Paolo ai Galati (6,2).
Quest’anno quindi il messaggio natalizio di papa Francesco è stato tutto incentrato sul tema della fraternità: “Dio è Padre buono e noi siamo tutti fratelli. Questa verità sta alla base della visione cristiana dell’umanità. Senza la fraternità che Gesù Cristo ci ha donato, i nostri sforzi per un mondo più giusto hanno il fiato corto, e anche i migliori progetti rischiano di diventare strutture senz’anima”.